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Al fine di aiutare tutti colòro che ríschiano di rimanere affascinati dall’esegesi eterodòssa di Màuro Biglino o che da essa sono rimasti già irretiti, pubblichiamo una lèttera che don Giuseppe Agnello, sacerdote della diòcesi di Patti (ME), inviò ad un suo conoscente. Leggendo lo scritto ci si renderà conto che lo sforzo intellettuale e l’amore zelante di don Giuseppe profuso nella lèttera a favore di quell’ànima ingannata non potévano rimanere chiuse nel privato. Invito tutti i lettori a sentirsi i destinatari diretti della sollecitúdine apostólica di don Giuseppe. (Flaviano Patrizi)
Caro amico mio, ¡che strano sentirti dire che per 35 anni tu sia stato plagiato e solo dopo la lettura di un Biglino qualunque sei stato risvegliato dal tuo sonno oppiaceo! ¿Il problema fùrono le “traduzioni approssimative”? ¿Quella del tuo nuovo maestro è fedele? Ti dimostrerò il contràrio piú sotto.
Affermi che provi fastídio nei toni beffardi e che apprezzi il mètodo socràtico. La calma e la maièutica ¿sono parte integrante del modo di procédere di chi ti ha rubato la fede? Non mi pare. Sulla calma ci siamo, ma non è condizione di veridicità e di giustízia: si può dire con calma “Ti òdio” o “Cretino”, e non per questo èssere ànimi sereni. Sulla maièutica, ti ricordo, che presuppone il diàlogo a fàccia a fàccia e il “sapere di non sapere”. Ora, se qualcosa la si sa da sècoli, o la si sa da più versanti, o la si sa dalla linguística, non serve far finta di non sapere, bisogna semmai far capire perché tutto conferma una verità o perché la verità deve sempre illuminare tutto. Se questo non accadesse, non saremmo di fronte a una verità, ma di fronte a una menzogna (Come sempre succede nel caso di Màuro Biglino esegeta). Più lo ascolto (per lèggerlo dovrei comprare dei suoi libri, ma non ho intenzione di farlo per non finanziare le sue elucubrazioni fantasiose. Se vuoi, me li presterai tu!), e più mi rendo conto che “la questione di mètodo” che pone è tutt’altro che sàggia, pulita, e scientífica: è solo un àlibi per tirare fuori “evidenze” per nulla evidenti. Il caro Biàgio Pascale (=Blaise Pascal), da filòsofo, insegnava che l’intelletto geomètrico (quello che argomenta e risale ai principȋ) deve sempre camminare di pari passo con quello intuitivo (che vede nell’insieme, ha sensibilità verso le cose comuni e verso quelle che non afferra pienamente, ma sa èssere certe), altrimenti o l’uno cade nel ridícolo o l’altro non passa dalle cose di uso comune ai principȋ generali.
Detto questo, leggo nelle tue parole riguardo al brano di Es 33, 18-23, la mancanza di entrambi i modi di pensare, e per di più molto dúbbio congènito anziché metòdico: «mi torna che in alcuni passaggî la cosa sia deliberatamente voluta per far passare un messàggio completamente stravolto per mascherare la verità». Non solo: l’umiltà di Sòcrate non la vedo affatto, sebbene la millanti. Parli di “deliberata” manomissione di un testo; sicuro stravolgimento del significato a càusa di un complotto ai danni della verità; certezza che questa verità sia un’altra (Ma non sapevi di non sapere?), visto che hai lasciato la Chiesa, per seguire le Chiose biglinesche. Caríssimo, non prendiàmoci in giro: il tuo mètodo è quello del Biglino e il Biglino non è Sòcrate, ma potrebbe èssere solo la brutta còpia di Pirrone di Èlide o dello Hume. Ma lasciamo pèrdere i capostípiti di certi mètodi fumosi e veniamo al tuo quesito, per dire che Dio non è Onnipotente, ma un UFOROBÒ. Il brano è questo: « Gli disse [Mosè]: «Mòstrami la tua glòria!». 19Rispose [Iavè]: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome, Signore, davanti a te. A chi vorrò far gràzia farò gràzia e di chi vorrò aver misericòrdia avrò misericòrdia». 20Soggiunse: «Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». 21Aggiunse il Signore: «Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: 22quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. 23Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere».
Per te il versetto 19 già è il campanello di allarme che qualcosa non torna, cioè che la risposta non è pertinente o non c’entra affatto con la domanda (devo lèggere fra le righe che insínui qui la prima manomissione dell’autore sacro?). Il che non è affatto vero né in riferimento alla glòria di Dio, né in riferimento al dùbbio di Mosè sulla competitività di Dio, né in riferimento ai verbi al futuro. Mosè non ha dubbî sull’Onnipotenza di Dio, ma ha quel giusto desidèrio di conòscere sempre piú e sempre mèglio la natura di Colui che ha liberato, istruito e guidato il suo pòpolo nel deserto. La natura divina, però, non è un oggetto, né il lato A o B di un’astronave, e nemmeno un fornetto a micronde, ma è pienezza di bontà, di gràzie, di misericòrdia, di luce, di trascendenza, di Èssere. Tutto ciò è “glòria”, ma non coincide ancora con l’essenza (= il volto). L’uomo, prima della venuta di Gesú, può conòscere Dio da “un luogo vicino a Lui”, per mezzo della preghiera; sopra la rupe, per mezzo della riflessione; ma poi Dio lo spinge nella cavità della rupe e lo copre con la mano finché non sia passato, perché la rivelazione completa di Dio e la conoscenza della sua essenza, spetterà a Gesù e allo Spírito Santo dàrcela.
Tuttavia, lasciando fuori il significato anagògico e spirituale del testo sacro, a un livello puramente letterale o naturale, ciò che Dio còmpie per educare Mosè non ha nulla di strano: gli sta dicendo (ed è questo il valore dei verbi al futuro) che per conòscerlo bisogna sempre attèndere con gradualità che Lui venga incontro al nostro desidèrio e alla nostra povertà. Quando le due cose si incòntrano, avremo comunque conosciuto di Dio “le spalle”, perché ci accorgeremo della sua mano (= òpera), solo dopo il suo passàggio.
Dio ci precede e ci sùpera. Riesci a capirlo? Questo è il significato! E il volto radioso di Mosè non è un’abbronzatura un po’ più tosta, ma una luminosità che deriva da un SOLE che non tramonta e che è Eterno. La condizione che poni alla sua onnipotenza è sciocca: “se fosse stato onnipotente non poteva protèggere Mosè da quei raggî?” Dio non è necessitato dalle nostre idee di onnipotenza ad agire in un certo modo, ma agisce secondo l’utilità e i significati che vuole farci pervenire. Se ci desse tutto sùbito, non apprezzeremmo il dono. Perciò agisce come ha sempre agito: « Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oràcolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovràstano le vostre vie, i miei pensieri sovràstano i vostri pensieri» (Is 55, 8-9). Le tue incalzanti domande, pàrtono dal presupposto che Dio non sia onnipotente, anziché dal presupposto che Egli sa come agire con l’uomo: « ¿Dio non avrebbe potuto mostràrgliela sùbito [la sua glòria], a maggiór ragione se onnipotente? Non ce l’aveva a portata di mano? È molto più credíbile che questo oggetto pesante fosse il suo mezzo di trasporto/combattimento e dovesse andarlo a prèndere per mostràrglielo. ¿E perché la Glòria dovrebbe passare? E visto che “volto” e “spalle” sèmbrano anch’essi víttime di traduzioni sbagliate, ¿perché mai Mosè dovrebbe morire vedendo il volto di Dio ma non vedendo la schiena dello stesso?». Perché “il volto” è l’essenza, mentre “le spalle” sono le òpere sue, che Dio fà riconòscere da sempre. ¿Non ti senti ridícolo nel pensare a Dio come a uno dei piloti di Yattaman? Un disegno animato per tempi corrotti nei costumi e nel cervello! Ah sí!: è colpa delle traduzioni sbagliate, delle vocalizzazioni sbagliate, delle interpretazioni ebràiche e cattòliche sbagliate. Tutti contro uno. Tutti contro il maestro Màuro Biglino.
Ma andiamo ai problemi che sono a monte dei testi che a noi sono giunti: vocalizzazione, la formazione del Pentatèuco, le traduzioni, le interpretazioni. Partiamo dalla vocalizzazione: Leggi ciò che dice Il trattato teològico-político di Spinoza, che solleva per primo il problema della vocalizzazione del testo masorètico. Lèggilo, come riflessione di un onesto intellettuale ebreo, non interessato a confutare nessuno. Avrai risposte. Io ti fàccio notare che la vocalizzazione arriva quando non piú a tutti èrano chiari alcuni passaggî della Scrittura. Di fronte a tèrmini poco usati, il lettore non sapeva se vocalizzare in un modo o in un altro. I Masoreti hanno agito a vantàggio della comprensione e non della corruzione. I dubbî ovviamente non riguardàvano né la vocalizzazione di Iavè, né quella di “glòria”. Riguardo a come si è formato il Pentatèuco ci sono gli studî di Julius Vellhausen, che conoscerai. Le stratificazioni, le fonti confluite nel testo a noi noto, sono parte della stòria di un pòpolo e delle sue guide, del desidèrio di “tesaurizzare” l’esperienza di salvezza provata dalle diverse tribú di Israele, tutte amate da Dio. Riguardo alle traduzioni (dei LXX, vetus latina, siríaca, ecc), bisogna tenere conto non tanto del “tradire” (Tradurre è sempre un po’ tradire), ma dello sforzo di fedeltà letterale o funzionale, del sensus fidei, della continuità della Tradizione. La Chiesa questo lo fà, avendo sommo rispetto e venerazione sia per il testo ebràico ed aramàico, sia per quello greco, sia per ogni antica “versione” della Scrittura. Riguardo alle interpretazioni, leggi la VERBUM DOMINI di Benedetto XVI, perché sennò le cantonate sono contínue. Ben vèngano gli studî crítici di scomposizione ed anàlisi di capítoli, versetti, libri bíblici, cultura del tempo, fonti estrabíbliche, e ogni apporto di qualsíasi disciplina; ma ciò non deve farsi “senza fede”, perché la Bíbbia non è una composizione chímica, ma un libro sacro con due coautori: Lo Spírito Santo e gli uòmini. Il primo ispira pensieri che súperano la comprensione stessa di chi li pronúncia; gli uòmini scrívono, restando uòmini con la cultura del pròprio tempo, la língua del loro tempo, le conoscenze del loro tempo.
E veniamo adesso alla parola in questione: “glòria”, che letteralmente hai tradotto “cosa pesante”. Non userò l’alfabeto ebràico (כבדך), ma la traslitterazione in italiano (cavòd). Mi stupisco che il sacerdote da te consultato àbbia confuso “cavèd”, che è “pesante”, con “cavòd”, che è “onore”. La radice è la stessa, ma la vocale e il significato sono diversi. Èsodo 20, v.12 sbugiarda totalmente una símile spiegazione di cavòd (glòria), perché vi si trova “cavèd” nel significato di “ONORA” (è un imperativo): «Onora tuo padre e tua madre». Esístono dunque in ebràico due parole omògrafe (cavèd-cosa pesante e cavèd-onora) ma con diverso significato e funzione lògica. Come accade che in italiano ci síano parole come “squilla” e “decoro” con due significati diversi e diverse funzioni lògiche, pur avendo lo stesso ètimo (Suona la squilla e squilla il telèfono; ci vuole decoro e decoro le pareti); come accade che dallo stesso ètimo basta una vocale a cambiare il significato (Il famíglio visse nella nostra famíglia), cosí in ebràico. In questo caso anzi, con piú pertinenza, abbiamo due tèrmini omògrafi (cavèd-cavèd) di etimològia diversa (casa pesante-onora), e due appartenenti alla stessa famíglia di parole, ma con vocalismo diverso (cavòd-cavèd = onore-onora). Ma poniamo pure caso che anche “cavèd-cosa pesante” sia della stessa famìglia di cavòd: ¿non diciamo anche noi in italiano che ci sono cose e persone di un certo “peso”? Non intendiamo certo in senso materiale il tèrmine, ma di valore. Giustamente allora la Bíbbia ebràica, ma anche la CEI 2008 tradúcono con “glòria” (che è “l’onore” tipicamente divino, in quanto proveniente da Dio o dovuto a Dio).
Dov’è l’astronave? Nella testa di chi ha smesso di crèdere in Dio, e ha cominciato a crèdere ad ogni fantasticheria.