Pubblicato il Lascia un commento

La necessaria coerenza del magistero con la Tradizione. Gli esempi della storia

Getting your Trinity Audio player ready...

Di Claudio Pierantoni[1]

In questo intervento, esamineremo brevemente la vicenda di due Papi dell’antichità, Liberio e Onorio, i quali, per diversi motivi, furono accusati di deviare dalla Tradizione della Chiesa, durante la lunga controversia trinitaria e cristologica, che impegnò la Chiesa dal IV fino al VII secolo.

Alla luce delle reazioni del corpo ecclesiale di fronte a queste deviazioni dottrinali, esamineremo poi il dibattito attuale che si è sviluppato intorno alle proposte di papa Francesco nell’Esortazione apostolica “Amoris Laetitia” e ai cinque “dubia” sollevati dai Quattro Cardinali.

1 – Il caso di Onorio

Cominceremo con il caso di Onorio I, benché cronologicamente posteriore, poiché tecnicamente più chiaro. Infatti, fu lui l’unico papa ad essere stato formalmente condannato per eresia. Siamo nei primi decenni del secolo VII, nel contesto della controversia sulle due volontà di Cristo. Il Concilio di Calcedonia, nel 451, aveva affermato che nell’unica Persona del Cristo si uniscono due nature complete, la divina e l’umana; questa soluzione però aveva lasciato scontenta una parte importante delle Chiese Orientali, che affermavano che, almeno dopo l’unione, in Cristo finiva per sussistere un’unica natura (monofisismo). Per venire incontro alle esigenze unitive della corrente monofisita, il patriarca di Costantinopoli Sergio aveva quindi proposto una formula che, pur accettando la dottrina delle due nature, la controbilanciava con l’affermazione dell’unica energia operativa di Cristo (monoenergismo). Bisogna tener presente che la situazione politica dell’impero era, in quel momento, molto delicata. L’imperatore Eraclio, salito al trono nel 610, doveva affrontare il massiccio attacco dei Persiani, che avevano invaso ampie zone dell’Oriente romano, giungendo a profanare il Santo Sepolcro a Gerusalemme e arrivando perfino a minacciare Costantinopoli. L’imperatore riuscì tuttavia a riorganizzare le forze romane e a guidare un’epica riscossa, che assunse i tratti di una vera e propria crociata, fino a sconfiggere definitivamente i Persiani nel 628. Era naturale che, finita la guerra, Eraclio sentisse la necessità di un’unificazione anche religiosa dell’Impero e cercasse quindi una formula di conciliazione con i monofisiti, che rappresentavano la maggioranza della popolazione nelle province appena riconquistate.

papa Onorio I
Mosaico di Papa Onorio I, nella basilica di Sant’Agnese fuori le mura

Suo sostenitore in questa politica fu appunto il patriarca Sergio. Questi, dunque, si fece promotore della dottrina che, se da una parte ammetteva le due nature in Cristo, dall’altra ne predicava l’unica energia operativa. Per tale dottrina, Sergio cercò anche l’appoggio del vescovo di Roma Onorio, il quale però (considerando forse poco chiaro o troppo astratto il termine greco enérgheia) preferì affermare che in Cristo c’è una sola volontà (una voluntas). Papa Onorio espose questa dottrina in una lettera del 634 (Scripta fraternitatis) in risposta al Patriarca di Costantinopoli[2]: e questa lettera fu causa, appunto, della sua posteriore condanna insieme con Sergio. Nel 638, morti entrambi i patriarchi, l’imperatore Eraclio promulgò un solenne documento di  unione religiosa, la “Esposizione” (Ékthesis), in cui sancì appunto la formula della una voluntas. Ma, nei decenni che seguirono, dopo altre dure lotte, tale formula fu definitivamente dichiarata eretica. Infatti, la dottrina dell’unica volontà in Cristo, o monotelismo, veniva a contrastare con le logiche conseguenze del dogma delle due nature, la divina e l’umana, dottrina solidamente fondata sulla rivelazione biblica, mirabilmente esposta dal Papa Leone Magno e solennemente sancita dal Concilio di Calcedonia. In armonia, appunto, con la dottrina calcedonese, finalmente, nel 681, il III Concilio di Costantinopoli (VI ecumenico), condannò il Patriarca Sergio e con lui il Papa Onorio. Ecco il testo:

“Esaminate le lettere dogmatiche scritte da Sergio, a suo tempo patriarca di questa città imperiale sia a Ciro, vescovo di Fasi, sia a Onorio, vescovo dell’antica Roma, e la lettera con cui questi, cioè Onorio, rispose a Sergio, e constatato che non sono conformi agli insegnamenti Apostolici e alle definizioni dei santi Concili e di tutti gli illustri santi Padri, e che viceversa seguono le false dottrine degli eretici, le rifiutiamo e le esecriamo come corruttrici”[3].

Segue l’anatema ai danni di Sergio e di altri vescovi, quindi il Concilio conclude:

“Concordiamo nel dissociare dalla santa chiesa di Dio e nel colpire con anatema anche Onorio, che fu papa dell’antica Roma perché, esaminando gli scritti che egli inviò a Sergio, abbiamo constatato che egli aderì in tutto al suo pensiero e confermò le sue empie dottrine”[4].

Il Concilio fu poi ratificato dal papa regnante, Leone II, che riprese anche l’anatema contro il suo predecessore, con le seguenti parole:

“Parimenti colpiamo con l’anatema gli autori del nuovo errore, cioè Teodoro, Sergio, Ciro, Pirro, e anche Onorio, che non illuminò questa chiesa apostolica con la dottrina della Tradizione apostolica, ma tentò di sovvertire l’immacolata fede con profano tradimento”[5].

Il Papa Leone II menziona tale condanna anche in due lettere: una ai vescovi spagnoli, affermando di Onorio:

“che non spense subito all’inizio la fiamma dell’insegnamento eretico, come sarebbe dovuto avvenire da parte dell’autorità apostolica, ma con la sua negligenza la favorì”.

L’altra lettera è indirizzata al re visigoto di Spagna Edvig, dove si dice che:

“Onorio di Roma acconsentì che l’immacolata regola della tradizione apostolica, ricevuta dai suoi predecessori, venisse macchiata”.

Ora, dalla dichiarazione del VI Concilio ecumenico, si ricava un concetto molto preciso dell’unità e della coerenza che deve sussistere fra: 1) la Tradizione ricevuta dagli Apostoli, 2) le definizioni dei Concili, che riprendono punti particolari della Tradizione per chiarirli in modo solenne, e infine 3) la testimonianza dei Padri che, attraverso i secoli, pur senza godere, presi individualmente, dell’infallibilità, confermano però, con il loro consenso, la continuità di un determinato insegnamento. Resta quindi chiaramente affermato, e poi esplicitamente ribadito dallo stesso papa Leone II, che tale corpo di tradizione, formato da Apostoli, Concili e Padri, fornisce il metro di giudizio con cui è valutata l’affermazione dogmatica del papa Onorio, il quale perciò, benché defunto, viene condannato senza mezzi termini dall’assise costantinopolitana. Poi, lo stesso Papa Leone II ratifica il Concilio e conferma l’anatema contro il suo predecessore, che si è allontanato dalla regola della tradizione Apostolica; non solo, ma sottolinea altresì la grave responsabilità di Onorio per la negligenza con cui favorì il propagarsi dell’eresia monotelita. È particolarmente notevole che la stessa Sede Romana, che da più di due secoli (almeno dai tempi di Damaso) insisteva esplicitamente sulla propria superiorità e prerogativa nell’avere l’ultima parola, soprattutto in questioni di dottrina, qui sottolinei con decisione il principio fondamentale che il Papa è sottomesso alla regola della Tradizione Apostolica, che ha ricevuto dai suoi predecessori. Si tratta, come dice l’Apostolo, di una consegna (Traditio) o deposito, che deve essere prima di tutto custodito fedelmente, per poter essere a sua volta tramandato e insegnato ai fratelli. Onorio è quindi condannato per aver permesso che la “regola immacolata della tradizione apostolica venisse macchiata”. Quindi, non solo l’aver aderito a una formula sbagliata, cosa che è al centro della condanna di Onorio da parte del Concilio, ma anche, e direi soprattutto, la negligenza nel “permettere che fosse macchiata la regola della tradizione apostolica” figura al centro della condanna del Papa Leone verso il suo predecessore.  Infatti, presa in sé, la formula onoriana della “una voluntas” potrebbe anche essere difesa, qualora la si intenda non come riferita alla naturale facoltà di volere, che deve seguire necessariamente la rispettiva natura, ma come riferita alla decisione concreta presa dall’unica Persona del Cristo, nella quale evidentemente le volontà, pur essendo due, umana e divina, tuttavia confluiscono in una sola azione, perché Gesù non disubbidisce mai alla volontà divina. È anche probabile che proprio così la intendesse Onorio, sia pure forse con una certa riserva mentale, consapevole, come non poteva non essere, che la formula comunque lasciava il campo aperto all’interpretazione monotelita. Ciò che è decisivo nel valutare la catalogazione eretica di Onorio è quindi proprio la sua negligenza nel non impedire, o addirittura favorire, la libera diffusione dell’eresia monotelita.

2 – Il caso di Liberio

Liberio, “natione Romanus”, fu eletto papa il 17 maggio del 352, in uno dei momenti più delicati della controversia ariana. Il suo predecessore, Giulio I, aveva tenacemente difeso la fede stabilita dal Concilio di Nicea del 325, che dichiarava il Figlio consostanziale al Padre. Giulio aveva avuto, in questo, il decisivo appoggio dell’imperatore d’Occidente, Costante. Morto però Costante, Papa Giulio si trovò, insieme a tutto l’episcopato d’Occidente, alla mercé delle pressioni di suo fratello Costanzo, imperatore d’Oriente, che invece appoggiava la posizione maggioritaria dell’episcopato orientale, contraria a Nicea. Secondo i vescovi orientali, infatti, la formula di Nicea non lasciava spazio alla differenza personale fra il Padre e il Figlio. Rimasto unico imperatore, Costanzo si preoccupò di ristabilire l’unità della Chiesa, appunto secondo la prospettiva orientale, contraria a Nicea. A questo fine, convocò un concilio ad Arles nel 353, in Gallia, che  passò sotto silenzio la fede di Nicea e in più condannò Atanasio, vescovo di Alessandria, l’unico vescovo orientale che difendeva tenacemente la formula del consustanziale. Anche i legati del Papa, presenti al concilio, firmarono la condanna di Atanasio. Liberio però sconfessò il loro operato, e chiese a Costanzo di convocare un nuovo Concilio, che confermasse la fede di Nicea. Fu il Concilio di Milano del 355. Ma anche qui fallì il tentativo dei vescovi fedeli al Papa, di far firmare il Credo Niceno, e si ripeté ancora una volta la condanna di Atanasio. I tre vescovi che rifiutarono di firmare furono deposti ed esiliati in Oriente. A questo punto, si addensava ormai la bufera sulla testa di Papa Liberio: infatti il Papa non aveva partecipato direttamente al Concilio, ma l’imperatore era ben deciso ad estorcere anche la sua firma. A questo fine inviò un suo emissario con una forte somma di denaro da offrire al Papa, che però la rifiutò decisamente; allora il ministro la depositò presso la tomba di San Pietro come offerta per la Chiesa: ma Liberio fece gettar fuori il denaro dalla Chiesa, in quanto offerta sacrilega. A questo punto, l’imperatore passò direttamente alle vie di fatto: fece rapire Liberio di notte, per evitare la resistenza del popolo, e lo fece tradurre a Milano, in quel tempo residenza dell’imperatore d’Occidente. Dopo un drammatico colloquio, in cui Liberio non cedette alle pressioni di Costanzo, il Papa fu deposto e spedito in esilio in Tracia. Siamo agli inizi del 356.

Nel frattempo, in quegli anni, la situazione dottrinale si era ulteriormente complicata: in particolare, il fronte antiniceno si era frazionato in tre partiti: 1) i più vicini a Nicea erano coloro che ritenevano il Figlio, benché non uguale, almeno “simile al Padre nella sostanza” (homoiusiani); 2) i più lontani da Nicea, coloro che negavano ogni somiglianza del Figlio dal Padre (anhómoioi); una via di mezzo sosteneva poi il partito degli omei (homoioi), che  affermava una generica somiglianza del Figlio al Padre. Quest’ultimo partito era quello più vicino ai desideri dell’imperatore, proprio per la sua genericità, che, apparentemente, prometteva di contentare tutti in una possibile unione, però piuttosto superficiale.  Questa situazione dottrinale incerta, unita ai freddi e alle sofferenze dell’esilio in Tracia, purtroppo, cominciarono a piegare la resistenza del Papa, che, dopo circa un anno, finì per cedere. Il cedimento di Liberio è attestato da quattro lettere tramandate da S. Ilario[6]. Inoltre è attestato da Atanasio[7] e da S. Girolamo[8]. Sappiamo da questi documenti che Liberio firmò una formula di fede pubblicata in un Concilio di Sirmio: non sappiamo però se si trattasse della prima formula di Sirmio, risalente al 351, che lasciava cadere la fede di Nicea, ma cercando almeno di affermare la vicinanza del Figlio al Padre, oppure della seconda formula di Sirmio, del 357, che invece affermava decisamente la dissomiglianza del Figlio dal Padre, e in più proibiva l’uso del consostanziale (homousios) e anche del simile secondo la sostanza (homoiusios). Ma comunque sia, è chiaro che Liberio rinnegava così la fede di Nicea e giungeva a scomunicare Atanasio, che ne era il più significativo difensore. Il clamoroso voltafaccia di Liberio fece grande impressione e fu duramente stigmatizzato, soprattutto da S. Ilario.

Ormai docile all’imperatore, dopo qualche tempo Liberio ottenne il permesso di rientrare a Roma,  dove fu reinsediato come vescovo. Qui fu accolto benevolmente dal popolo, ma, ormai indebolito e ferito nel suo prestigio e nel suo ruolo di guida dell’episcopato, non ebbe la forza né la volontà di opporsi alla realizzazione definitiva dei piani di Costanzo, il quale finalmente, nel successivo doppio concilio di Rimini e Seleucia (359) ottenne il trionfo della generica formula del “Figlio simile al Padre”, mantenendo in ostaggio i vescovi, fin quando non avessero firmato; tale formula fu poi confermata in un ulteriore concilio a Costantinopoli l’anno seguente (360): questa formula, con la sua genericità, dava carta di cittadinanza alle correnti filoariane moderate, e, escludendo l’uso del termine ousía (sostanza), proscriveva tanto gli omoiusiani come gli omousiani, ossia gli ortodossi,  fedeli a Nicea. Nei mesi che seguirono, tutti i prelati filoariani, abili tanto nella dialettica quanto nei maneggi politici, che avevano fatto carriera grazie al favore di Costanzo, consolidarono il loro potere nelle principali sedi episcopali. È questo il momento in cui, secondo la famosa frase di S. Girolamo, “il mondo si lamentò di essere diventato ariano”. Il successo della politica ecclesiastica tenacemente perseguita da Costanzo sembrava ormai definitivo e la situazione sembrava stabilizzata, a tempo indeterminato, a favore dei filoariani: agli occhi umani, la formula di fede definita a Nicea 35 anni prima, pareva ormai del tutto superata. Dei più di mille vescovi che contava la cristianità, rimanevano a resistere, in esilio, solo tre irriducibili (Atanasio di Alessandria, Ilario di Poitiers e Lucifero di Cagliari), apparentemente ormai tagliati fuori dal corso degli eventi.

Tuttavia, proprio quando tutto sembrava ormai tranquillo, la situazione militare sul fronte persiano ebbe un improvviso peggioramento, che obbligò Costanzo a prendere le armi e partire per l’Oriente. Per di più in Gallia, subito dopo, l’esercito proclamò imperatore il Cesare Giuliano. Così, improvvisamente, l’Impero era minacciato dai nemici esterni e al tempo stesso si trovava sull’orlo di una guerra civile. Questa però fu provvidenzialmente evitata, grazie all’improvvisa morte di Costanzo per una febbre, il 3 novembre 361: l’imperatore aveva appena 44 anni.

Appena salito al trono imperiale, Giuliano, poi detto l’Apostata, dichiarava la guerra alla fede cristiana e il ritorno dello Stato romano al paganesimo tradizionale. Questo permetteva ai vescovi esiliati di ritornare in patria, e cancellava con un colpo di spugna, si puó dire, tutta la politica ecclesiastica di Costanzo. Ormai cessato l’incubo delle minacce di Costanzo, Papa Liberio invió un’enciclica che considerava invalida la formula approvata a Rimini e Costantinopoli, ed esigeva ai vescovi d’Italia l’accettazione del Credo Niceno. Nel 366, in un sinodo celebrato a Roma poco prima di morire, ebbe perfino la gioia di ottenere la firma del credo Niceno da una delegazione di vescovi orientali. Appena morto, fu venerato come confessore della fede, ma presto il suo culto venne interrotto, certamente per il ricordo del suo cedimento, e il suo nome non appare nella memoria liturgica romana.

A differenza di Onorio, Liberio non ricevette una condanna formale, certamente per il fatto che, da una parte, la sua defezione fu dovuta non a spontanea volontà, ma a una forte pressione fisica e, d’altro lato, cessata tale pressione, il Papa ebbe la fortuna di poter riaffermare solennemente la fede ortodossa di Nicea. Per questo, se la sua colpa morale nel cedimento fu oggettivamente grave, le conseguenze dottrinali non furono altrettanto gravi perché, al di lá delle dichiarazioni estortegli, la mente del Papa era rimasta ortodossa; e d’altro canto, di lí a poco la situazione dottrinale venne sbloccata, paradossalmente, proprio dall’apostasia di Giuliano.

Tuttavia, nonostante le loro differenze, presi in linea generale i due casi di Liberio e di Onorio hanno in comune un punto importante, ed è il fatto che i rispettivi interventi ebbero luogo entrambi quando ancora era in corso il processo di fissazione dei rispettivi dogmi, quello trinitario nel caso di Liberio e quello cristologico nel caso di Onorio. Infatti, sebbene a Nicea fosse stata dogmaticamente stabilita la consostanzialità del Padre e del Figlio, mancava ancora una formula per classificare con un termine tecnico la Trinità delle persone; così anche, mentre a Calcedonia era stata affermata la doppia natura di Cristo, mancava ancora la precisazione che sarebbe venuta solo due secoli dopo con l’affermazione formale delle due volontà. Ora, questo punto che accomuna la deviazione dottrinale dei due papi dell’antichità costituisce senza dubbio un’attenuante; ma purtroppo questo stesso è il punto che li contrappone alla deviazione dottrinale che si sta verificando durante il pontificato attuale, che invece ha una forte aggravante nel suo contrapporsi non a dottrine ancora poco chiare, o in via di fissazione, ma a dottrine che, oltre ad essere solidamente ancorate nella Tradizione, sono anche state già esaustivamente dibattute negli scorsi decenni e dettagliatamente chiarite dal recente magistero. Non si tratta quindi solo di una deviazione del Magistero dalla Tradizione presa in generale, ma anche di una contraddizione diretta con pronunciamenti del Magistero molto recente.

3 – Il caso di Francesco

Prendendo quindi in esame il caso attuale, di Papa Francesco, il panorama si complica notevolmente. Qui, naturalmente, non ho quasi necessità di ricordare gli eventi storici, che sono molto recenti e ben noti al pubblico informato, per le notizie che quotidianamente ci bombardano. Quindi mi limiterò ai punti strettamente indispensabili, cercando di dare una visione d’insieme di questa gravissima crisi, che si profila ormai come la più grave tra quelle affrontate dalla Chiesa.

Il conflitto prende le mosse da un punto apparentemente circoscritto, che l’osservatore non sufficientemente attento tende a percepire come d’interesse più pastorale e disciplinare che strettamente dogmatico: si tratta della possibilità di concedere, almeno in certi casi particolari, la comunione sacramentale alle persone che convivono con una persona diversa dal coniuge legittimo. È quindi per molti sorprendente che una deviazione dalla dottrina su questo punto apparentemente circoscritto, stia costituendo un così micidiale cavallo di Troia capace di innescare, dall’interno stesso dell’edificio della Chiesa, un bombardamento strategico di tutte sue le difese e delle sue stesse fondamenta.

Premetto la mia convinzione che questo attacco, su un piano spirituale, supera di molto le intenzioni e la consapevolezza soggettiva dei sostenitori della linea chiamata progressista o, con più esattezza, modernista; la nostra lotta, è bene tenerlo presente, non è contro le persone, “contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potestà, i dominatori del mondo di tenebra” (Efes. 6,12). Ma pure, su un piano storico, corre l’obbligo di registrare e non occultare che esso è sostenuto e favorito da una serie di persone concrete tra cui, purtroppo, fa spicco la persona del Papa.

Il nostro scopo sarà quindi ora di mostrare come, dal punto particolare della comunione ai divorziati risposati, il discorso si allarghi per conseguenza logica ineluttabile all’intero l’edificio della dottrina cattolica. Naturalmente, la deviazione dottrinale in oggetto era già presente negli scorsi decenni e con essa, quindi, anche lo scisma sotterraneo che questa significava.  Ma pure, quando si passa da un abuso al livello pratico alla sua giustificazione al livello dottrinale attraverso un testo del magistero pontificio e attraverso dichiarazioni e azioni positive dello stesso pontefice per sostenerlo, la situazione cambia radicalmente. Anche perché lo sforzo di giustificare teoricamente questa posizione viene necessariamente a toccare altri punti della dottrina. E succede che più il teologo, che nega un punto della Tradizione, si sforza di trovare argomenti a sostegno della sua tesi, più finisce per affondare nelle sabbie mobili della contraddizione e dell’assurdo. Questo perché il Deposito della fede, conservato dalla Tradizione, non è un sistema di pensiero meramente umano, fallibile, dove possa introdursi un elemento incoerente o erroneo, che potrebbe essere quindi corretto senza danno, anzi con profitto della verità. Nel deposito della fede, invece, ogni elemento è connesso con tutti gli altri con infallibile consequenzialità. Di qui che, sforzandosi di difendere il primo errore ricorrendo ad altri elementi, si finisce per distorcerli e snaturarli tutti.

Vediamo, in quattro punti, il progresso di questa distruzione.

Primo punto

Se il matrimonio è indissolubile, ma pure in alcuni casi si può dare la comunione ai divorziati risposati, sembra evidente che questa indissolubilità non è più considerata assoluta, ma solo una regola generale che può soffrire eccezioni. Ora questo, come ha  ben spiegato il Card. Caffarra, contraddice la natura del sacramento del matrimonio, che non è una semplice promessa, sia pure solenne, fatta davanti a Dio, ma un’azione della grazia che agisce al livello propriamente ontologico. L’azione che fa di due una sola carne, ha infatti carattere definitivo e non può essere cancellata. In più quest’azione della grazia, fondata sull’ordine stesso della creazione e finalizzata al bene delle persone, come sacramento assume la funzione di significare l’unione indissolubile fra Cristo sposo e la sua Chiesa. Se il sacramento dell’Eucaristia fa presente in mezzo a noi il sacrificio di Cristo, con il quale il Redentore si unisce indissolubilmente al corpo mistico della sua sposa la Chiesa, da parte sua il sacramento del matrimonio non solo è un simbolo, ma realizza anche concretamente una rappresentazione visibile e reale di questo mistero: è, allo stesso tempo, segno e realtà. Quindi, quando si dice che il matrimonio è indissolubile, non si enuncia semplicemente una regola generale, ma  si dice che il matrimonio ontologicamente non può sciogliersi, poiché in esso è contenuto il segno e la realtà del matrimonio indissolubile fra Dio e il suo Popolo; e questo mistico matrimonio, non sarà inutile ricordarlo, è proprio il fine dell’intero piano divino della Creazione e della Redenzione.

Secondo punto

Possiamo osservare che il redattore di AL, sia pur in modo non del tutto chiaro, è comunque consapevole che la sua proposta è vulnerabile da questo lato. Infatti i numerosi tentativi di mettere in dubbio la tradizione dell’indissolubilità erano stati anche recentemente confutati sia sul piano biblico e patristico che su quello dogmatico[9]. Perciò il redattore ha scelto di insistere, nella sua argomentazione, piuttosto sul lato soggettivo dell’azione morale. Il soggetto, dice, potrebbe non essere in peccato mortale perché, per diversi fattori, non è ben consapevole che la situazione è un adulterio. Ora questo, che in linea generale può senz’altro accadere, nell’utilizzazione che ne fa il nostro testo comporta invece un’evidente contraddizione. Infatti, qui tutto il discorso è centrato sulla necessità del discernimento delle singole situazioni e sull’accompagnamento da offrire alle persone. Ora, è chiaro che proprio il discernimento e l’accompagnamento contrastano direttamente con la supposizione che il soggetto rimanga, a tempo indefinito, inconsapevole della sua situazione. E il redattore, lungi dal percepire tale contraddizione, la spinge fino all’ulteriore assurdo di affermare che un approfondito discernimento può portare il soggetto ad avere la sicurezza che la sua situazione, oggettivamente contraria alla legge divina, sia proprio ciò che Dio vuole da lui. Cioè: l’elemento soggettivo dell’ignoranza, che può certamente diminuire la responsabilità in molti casi, qui paradossalmente si trasforma in un elemento di scienza, in base al quale il soggetto può arrivare a stabilire con certezza che Dio vuole da lui un comportamento oggettivamente contrario alla Sua stessa legge, quella legge che emana dalla sua eterna e infallibile Sapienza.

Terzo punto

Il ricorso a questo argomento, a sua volta, tradisce una pericolosa confusione che, oltre alla dottrina dei sacramenti, arriva ad intaccare la nozione stessa di Legge divina. Su questo punto, dobbiamo innanzitutto precisare che qui non è in gioco una disposizione divina meramente positiva, come possono essere le leggi che regolano aspetti accidentali del culto, che, come tali, si adattano a diverse circostanze storiche: per esempio le prescrizioni alimentari degli Ebrei, le leggi sui sacrifici cruenti, o la stessa circoncisione. Qui è in gioco, invece, la Legge divina intesa come fonte della legge naturale, rispecchiata nei Dieci Comandamenti: questa è data all’uomo perché atta a regolare i suoi comportamenti fondamentali, non limitati a particolari circostanze storiche, ma fondati sulla sua  stessa natura, il cui autore è appunto Dio. Per servirci di un semplice paragone: una cosa è la legge positiva che regola la circolazione di un’auto in un certo Paese; altra cosa è il libretto di istruzioni scritto dal fabbricante del veicolo. Se io supero un limite di velocità, supponiamo per un’emergenza vitale, posso anche essere moralmente giustificato, perché la regola, in sé giusta, non è però assoluta, perché non è intrinsecamente legata all’essenza del veicolo. Se invece contravvengo all’indicazione del fabbricante, che mi dice che l’automobile è stata disegnata per funzionare con la benzina, nessuna emergenza o eccezione, nessun discernimento, certamente, servirà a far sí che l’auto funzioni col gasolio. Mettervi del gasolio non è quindi un male perché sia  “proibito” da una qualche legge esterna, ma è intrinsecamente irrazionale, perché contraddice la natura stessa del veicolo. Quindi, il supporre che la legge naturale possa soffrire delle eccezioni è una vera e propria contraddizione, è una supposizione che non comprende la sua vera essenza e perciò la confonde con la legge positiva. La presenza di questa grave confusione è confermata dal ripetuto attacco, presente in AL8, contro i legulei, i presunti “farisei” ipocriti e duri di cuore. Questo attacco, infatti, tradisce un completo fraintendimento della posizione di Gesù verso la Legge, poiché la Sua critica al comportamento farisaico si fonda proprio su una chiara distinzione fra legge positiva (i “precetti di uomini”) cui sono tanto attaccati i farisei, e i Comandamenti fondamentali, che sono invece il primo requisito, irrinunciabile, che Lui stesso chiede all’aspirante discepolo. In base a questo equivoco si comprende il vero motivo per  cui, dopo aver tanto insultato i farisei, il Papa finisce per allinearsi di fatto con la loro stessa posizione a favore del divorzio, contro quella di Gesù.

Ma, ancora più a fondo, è importante osservare che questa confusione snatura profondamente l’essenza stessa del Vangelo e il suo necessario radicamento nella Persona di Cristo.

Quarto punto

Cristo infatti, secondo il Vangelo, non è semplicemente un uomo buono, venuto al mondo a predicare un messaggio di pace e giustizia. Egli è, innanzitutto, il Logos, il Verbo che era nel principio e che, nella pienezza dei tempi, si incarna. È significativo che l’insistenza del Papa Giovanni Paolo II sull’oggettività della legge morale, affermata nella Veritatis Splendor (1993), viene poi completata con il suo necessario fondamento nella verità razionale, che a sua volta è indicata come il presupposto della fede (Fides et Ratio, 1998). Ed è anche  molto significativo che poi anche il suo successore Benedetto XVI, fin dal suo discorso Pro eligendo Romano Pontifice, abbia fatto proprio del Logos il cavallo di battaglia del suo insegnamento, mostrando con chiarezza che l’origine del moderno attacco alla fede si gioca proprio sui  presupposti filosofici, quindi appunto sulla dottrina del Logos, dottrina non a caso combattuta a morte dal soggettivismo delle moderne teorie della conoscenza.

È chiaro infatti, che il soggettivismo etico può trovare spazio soltanto all’interno di una gnoseologia soggettivista o immanentista. Se l’oggetto della mente umana, infatti, non è basato in ultima analisi sulla Verità trascendente che la illumina, che è quella stessa Verità per mezzo della quale le cose vengono all’esistenza, allora la mente non può veramente conoscere le cose, e i suoi concetti sono vuote formalità che non possono rispecchiare la realtà.

Ora, nell’ambito di questa filosofia soggettivista si giustifica uno dei postulati più cari al Papa Francesco, secondo il quale “la realtà è superiore all’idea”. Una massima come questa, infatti, ha senso solamente in una visione in cui non possono esistere idee vere, che non solo rispecchino fedelmente la realtà, ma possano anche giudicarla e dirigerla. Se invece accettiamo, con la tradizione cristiana, che il Verbo di Dio è l’eterna Sapienza cha da una parte crea il mondo e dall’altra illumina la mente umana, allora dobbiamo accettare che in questa eterna Sapienza vi è appunto un’Idea, un Modello, che è superiore alla realtà storica, un’Idea che governa la realtà creata nella sua intima struttura e gli dà legge nel suo senso più profondo; e che questa Sapienza, se è tale, è anche capace di comunicare effettivamente tale conoscenza alla creatura intelligente che ha formato simile a sé, perché essa possa conoscerlo e amarlo. Il Vangelo dunque, preso nella sua integrità, suppone questa struttura metafisica e gnoseologica, dove la Verità è in primo luogo adeguazione delle cose all’intelletto, e l’Intelletto è in primo luogo quello divino: appunto, il Verbo divino.

Quindi è sullo stesso Verbo divino che si fonda l’importanza, nel messaggio  cristiano, della “retta dottrina” poiché la dottrina, espressa in concetti, lungi dall’essere una mera formalità emanata dall’intelletto umano, è invece appunto un riflesso del Verbo, sia nel suo aspetto filosofico, come teoria della conoscenza e teologia razionale, sia nel suo aspetto storico, come Tradizione che ci viene dalla venuta di Cristo sulla terra.  Ecco perché, nella tendenza eretica che dimostra Amoris Laetitia 8, soprattutto se letto alla luce di molte altre dichiarazioni del Papa e di suoi più stretti collaboratori, l’attacco alla ragione e alla legge naturale si accompagna all’attacco portato alla tradizione storica su Gesù. Poiché, nella sua natura divina, Cristo è la Verità: ma la Verità appunto, si fa uomo in Cristo. Quindi l’attacco portato alla Verità distrugge in pari tempo la verità storica di Cristo, che è anche la principale verità di tutta la storia; con essa, quindi, distrugge tanto la verità ontologica quanto la verità e visibilità storica della Chiesa, della sua Tradizione e dei suoi Sacramenti, che costituiscono lo scopo e l’effetto della venuta di Cristo.

Insomma, l’errore di questo atteggiamento consiste non solo e non tanto nel negare uno o anche più punti specifici della dottrina cattolica, ma proprio nello screditare la sua natura stessa di “dottrina” e il suo necessario aggancio con la ragione. Infatti, se “la realtà è superiore all’idea”, a perdere rilevanza non è solo una dottrina, ma la dottrina stessa. In principio non è più il Logos, ma la Praxis. “Im Anfang war die Tat”, “In principio era l’Azione”, come dice il dottor Faust ritraducendo il Vangelo. In questa atmosfera si comprende come sia possibile che il direttore della Civiltà Cattolica affermi che è la pastorale (=la prassi) che  deve guidare la dottrina e non viceversa, e che in teologia, “due più due possono fare cinque”. Si spiega perché una signora luterana può fare la comunione insieme al marito cattolico: la prassi infatti, l’azione, è quella della Cena del Signore, che essi hanno in comune. Quello in cui differiscono, invece, sono solo “le interpretazioni, le spiegazioni”, meri concetti insomma. Ma si spiega anche come, secondo il Padre generale della Compagnia di Gesù, il Verbo incarnato non sarebbe in grado di mettersi in contatto con le sue creature attraverso il mezzo da Lui stesso scelto, la Tradizione apostolica:  infatti, bisognerebbe sapere cos’ha veramente detto Gesù, ma non possiamo, dice, “dal momento che non c’era un registratore”. Il generale non è sfiorato dalla riflessione che, se l’eterna Sapienza avesse pensato che un registratore fosse il mezzo più idoneo per farci conoscere le Sue parole, lo avrebbe senz’altro scelto. E, con la saccenteria dell’homo tecnologicus, viene a dirci che una macchina, un essere inanimato, sarebbe un mezzo più efficace della viva tradizione di esseri umani, che passa attraverso il cuore e la fede degli Apostoli e dei loro successori, che a questo preciso fine furono da Lui stesso prescelti.

Ancora più a fondo, in questa atmosfera, si spiega infine come il Papa non possa rispondere ai dubia, “sì o no”.  Se infatti “la realtà è superiore all’idea” allora l’uomo non ha  neanche bisogno di pensare con il principio di non-contraddizione, “sì o no”; non ha bisogno di principi, che dicano “questo sì e questo no” e neppure  deve obbedire a una legge naturale trascendente, che non si identifichi con la stessa realtà. Insomma, l’uomo non ha bisogno di una dottrina, perché la realtà storica basta a se stessa: è il Weltgeist, lo Spirito del Mondo.

4 – Conclusione

Per finire, dal confronto della situazione attuale con quella dei precedenti “papi eretici”, emerge una somiglianza, ma anche una netta differenza. La somiglianza è data dal fatto che in tutti e tre i casi, in fondo, quello che si ricerca è una formula di compromesso, una soluzione politica che possa riscuotere il maggior numero di consensi, senza però approfondire il suo contenuto veritativo e la sua coerenza con la Tradizione. La storia insegna che questi tentativi sono destinati al fallimento, perché il successivo sviluppo della riflessione fa inevitabilmente venire a galla le contraddizioni che si era cercato di dissimulare.

La differenza essenziale che invece notiamo fra la situazione antica e la moderna è invece la seguente. Senza togliere nulla né alla gravità delle antiche controversie trinitarie e cristologiche, né alla drammaticità degli eventi che coinvolsero Liberio e Onorio, né alle loro responsabilità, tuttavia, in confronto con la situazione attuale, le loro deviazioni dottrinali appaiono limitate a punti particolari, sia pure molto importanti, e derivate in gran parte, più che dalla mente eretica dei Pontefici, dalle pressioni politiche e da una terminologia teologica ancora in via di formazione.

Quello che invece salta all’occhio nella situazione attuale è proprio la deformazione dottrinale di fondo che, pur abile nello schivare formulazioni direttamente eterodosse, manovra tuttavia in modo coerente per portare avanti un attacco non solo contro dogmi particolari come l’indissolubilità del matrimonio e l’oggettività della legge morale, ma addirittura contro il concetto stesso della retta dottrina e, con esso, della Persona stessa di Cristo come Logos. Di  questa deformazione dottrinale la prima vittima è proprio il Papa, che di essa, mi azzardo a ipotizzare, è assai poco consapevole, vittima di un’alienazione generalizzata ed epocale dalla Tradizione, in ampi strati dell’insegnamento teologico; dietro a lui, innumerevoli sono le vittime che cadono in inganno.

In questa situazione, i “dubia”, queste cinque domande presentate dai Quattro Cardinali, sono stati certamente un punto fondamentale di svolta, una potente luce di verità che si è proiettata su questo caos, e per questo li dobbiamo ringraziare profondamente. Per quanto siano pochi e apparentemente isolati, le loro domande sono comunque coraggiose affermazioni di verità. In realtà, non sono solo loro che parlano, ma lo stesso Logos, “dalla cui bocca esce una spada affilata” (Apoc. 19,15). Ora, queste cinque domande hanno messo il Papa in una situazione di stallo. Se le rispondesse rinnegando la Tradizione e il Magistero dei suoi predecessori, passerebbe ad essere eretico anche formalmente, quindi non può farlo. Se invece le rispondesse in armonia con il Magistero precedente, contraddirebbe gran parte delle azioni dottrinalmente rilevanti compiute durante il suo pontificato, quindi sarebbe una scelta molto difficile. Ha scelto quindi il silenzio perché, umanamente, la situazione può apparire senza uscita. Ma intanto, la confusione e lo scisma de facto si estendono nella Chiesa.

Alla luce di tutto ciò, si rende quindi più che mai necessario, così come era stato inizialmente previsto almeno dal Card. Burke, un ulteriore atto di coraggio, di verità e di carità, da parte dei Cardinali, ma anche dei Vescovi e poi di tutti i laici qualificati che volessero aderirvi. In una situazione così grave di pericolo per la fede e di scandalo generalizzato, è non solo lecito, ma addirittura doveroso per l’inferiore correggere fraternamente il superiore, sempre che si faccia nella carità; neppure l’obbedienza gerarchica o religiosa può essere utilizzata, in questo caso di pericolo generale, come una scusa per tacere la verità.

È necessaria insomma una correzione fraterna francamente rivolta a Pietro,  per il suo bene e quello di tutta la Chiesa.

Alcuni, a proposito di questa ventilata correzione fraterna al Papa, hanno manifestato il timore che essa potrebbe portare a uno scisma formale. Ma a ben riflettere, questo timore si rivela del tutto infondato. Infatti, dello scisma formale mancano tutte le condizioni. Non risulta, per cominciare, che nessuno dei Cardinali  voglia sostenere che Francesco non sia il Papa, né ancor meno, che qualcuno voglia farsi eleggere antipapa. Lo scisma vero, che aumenta ogni giorno, è invece quello di fatto, che solo una correzione potrebbe frenare.

Una correzione fraterna, infine, non è né un atto di ostilità, né una mancanza di rispetto, né una disobbedienza. Non è altro che una dichiarazione di verità: caritas in veritate. Il Papa, ancor prima di essere papa, è nostro fratello, e questo è quindi un primordiale dovere di carità nei suoi confronti. Del suo destino ci sarà chiesto conto, come anche di quello di tutti coloro che si affidano alla sua guida. L’empio, dice Dio attraverso il profeta Ezechiele, “morirà per il suo peccato”, ma se tu, sentinella, non lo avverti, “della sua morte chiederò conto a te” (Ezech. 33,8).

Fratelli cristiani: Cardinali, Vescovi, Sacerdoti, professori, amici tutti. Cristo è venuto al mondo “per rendere testimonianza alla Verità” (Giov. 18,37). A noi non resta che seguirlo, rendendo testimonianza alla verità; non domani, ma oggi, “finché dura il giorno” (Giov. 11,9). Il tempo, ormai, “ha ammainato le vele” (I Cor 7,29).

Roma. 22 aprile 2017

 

 


Note

[1] L’autore ha insegnato storia della Chiesa e patrologia alla Pontificia Universidad Católica di Santiago del Cile e attualmente è docente di filosofia medievale alla Universidad de Chile, Santiago del Cile.

[2] Denzinger 487.

[3] Sessione 13ª (Denzinger 550).

[4] Denzinger 552.

[5] Epistola Regi Regum all’Imperatore Costantino IV (Denzinger 563).

[6] Nei Collectanea antiariana Parisina.

[7] Nei Collectanea antiariana Parisina.

[8] De viris illustribus 97.

[9] Cf. R. Dodaro, ed., Permanere nella verità di Cristo,  2014.

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.